mercoledì 21 novembre 2012

Un condominio.


    Riccardo ha 35 anni, vive ancora con sua madre. Anziana donna. Si chiama Gina. Capelli grigi. Porta sempre le scarpe con un po’ di tacco. Anche dentro casa. Riccardo è un cantante lirico. E’ bravo? Sì, lo è. Ma un talento che rimane chiuso dentro la sua stanza e nel cuore di sua madre. Che sa di quanto suo figlio sia bravo. Alla morte del padre decise che avrebbe sacrificato un po’ della sua pensione per aiutarlo nei suoi studi. “Quando diventerai famoso, allora sì, me li ridarai tutti, adesso non ti devi preoccupare.” E lui non se ne preoccupò. Affatto. Lei ora lo guardava. Cercando di capire dove avesse sbagliato. Perché ora lei era certa di avere sbagliato qualcosa. Specialmente quando parlava con la vicina del terzo piano. Sì, di suo figlio Gilberto, un ingegnere. Il figlio ingegnere della vicina del terzo piano guadagnava seimila euro al mese viveva alle isole Wite e presto, a sua detta si sarebbe sposato. Gilberto guadagnava un seimila euro al mese. E’ vero. Viveva alle isole White. E’ vero anche questo. E forse era anche vero che si sarebbe sposato. Forse. Davvero. Certamente forse.
    Così all’oscuro dei davvero e certamente “forse” la mamma di Riccardo si stava interrogando sul futuro del suo giovane figlio. Cioè, si diceva, io alla sua età avevo già fatto due bambini, lavoravo e tenevo la casa, da sola.
    La Signora Gina si stava seriamente interrogando su suo figlio.
    Accanto alla porta della Signora Gina, abitava Luigi. Un ragazzo siciliano. Con la sua fidanzata, con il suo amico, l’amico del suo amico, l’amico dell’amico del suo amico e un gatto. Giò. Un bilocale sovraffollato. Di rumore di musica di persone di fumo legale e non. Luigi e tutti gli amici suoi erano perfetti studenti mantenuti. Da circa dieci anni. Nessuno di loro veniva mai abitato da parole come senso di responsabilità, esami, lavoro, guadagnare, denaro. Vivevano alla giornata che poteva iniziare alle tre del pomeriggio essere sospesa alle sette e ripresa alle undici di sera per poi finire alle cinque del mattino.
  • La Signora Gina non aveva visto di buon occhio quei ragazzi già dal primo giorno. Quando Giò il gatto era andato in calore. Lei non poteva sopportare quei lamenti gattini e soprattutto quell’odore felino. E non sopportava più nemmeno l’odore umano di Luigi e tutti gli amici suoi. Aveva cercato di scrivere all’amministratore a tutti i condomini del palazzo aveva lasciato lettere minatorie era persino arrivata a rubare l’ombrello di Luigi, che se pur rotto, le aveva dato una grande soddisfazione. Ma tutto questo non era servito a niente. Luigi e gli amici suoi ancora stavano lì.
    La terza porta del pianerottolo era abitato da un’anziana Signora. Di circa 90 anni. Viveva sola.
    Maria. La signora Maria ogni venerdì della settimana chiamava i pompieri la polizia e l’autoambulanza. Si sentiva sempre degli strani fremiti vicino al cuore. Così al minimo accenno di dolore lei prendeva il telefono e componeva solo con un tocco di dito…l’uno per i pompieri, due per la polizia, tre per l’autoambulanza. Un giorno arrivò il venerdì. Lei era gia pronta davanti al telefono un po’ in dubbio su quale tasto schiacciare. Facciamo l’uno. Si, facciamo l’uno. Schiaccio il tasto. Parlo con l’operatore Francesco. Francesco la ascoltava. E Maria faceva traboccare ogni malore e un grave sentore di pericolo di morte. Va bene, disse l’operatore Francesco, lei non si deve preoccupare mi lasci il suo indirizzo. Lei lo fece. Poi uscì per andare a fare la spesa. Certo era venerdì. Lei non avrebbe mai fatto la spesa di sabato. Uscì con la sua lista della spesa. Maria girava beata da uno scaffale di biscotti morbidi a quello dei sanitari, dal bancone della carne macinata a quello del pane fresco. Un etto di qua, un salame di là, un dolcino di qui e un assaggino di lì. Nello stesso istante una squadra speciale di pronto intervento arrivò sotto casa di Maria. Suonarono alla porta telefonarono e risuonarono. La squadra speciale si guardò negli occhi. Dobbiamo chiamare i vigili del fuoco, arrampicarci ed entrare dalla finestra. State pronti. Potrebbe avere lasciato anche il gas aperto. Arrivarono anche i vigili del fuoco, proprio mentre la Signora Maria stava raccogliendo i punti per comprare un pentola antiaderente. Era allegra. Ne aveva già raccolti milleuno. Gliene mancavano soltanto venti. I vigili del Fuoco erano gia arrivati al quinto piano. La Signora Maria stava attraversando la strada. I Vigili del Fuoco spaccarono la sua finestra. La Signora Maria stava entrando dentro il portone. I Vigili del fuoco provvisti di mascherina erano finalmente entrati dentro casa. La Signora Maria con le chiavi di casa, pure.
    Intanto al terzo piano una famiglia di indiani stava facendo il bucato. Milanel stendeva. Mamel suo marito la guardava. Milanel cercava di concentrarsi sui calzini sulle magliette. Mamel continuava a guardarla. La guardava ma pensava ad altro. Pensava all’incontro della mattina. Con il medico ginecologo. Dopo pochi mesi di arrivo in Italia sua moglie aveva lamentato dolori di ogni genere. Prima era un ciclo troppo abbondante, poi l’assenza di ciclo poi i dolori del ciclo poi le infezioni le irritazioni poi i pruriti poi il gonfiore addominale sotto e sopra uterino intra costale. In linguaggio indiano come pure in quello italiano, loro non erano ancora riusciti a fare l’amore. In linguaggio indiano come pure in linguaggio italiano tutto ciò per Mamel diventava decisamente frustrante. Per questo motivo decise di accompagnarla da un dottore ginecologo. Proprio mentre Milanel finiva di stendere il calzino blu, Mamel cercava di ricordare le parole di quel dottore “La Signora è affetta da una infezione fastidiosa che va avanti da mesi e che non è mai stata curata”. Quelle parole gli rimbombavano nella testa …c’era qualcosa che non tornava…qualcosa…che non lo convinceva
    Mentre Milanel stendeva l’ultima maglietta e Maria offriva un tè nero a tutta la squadra mobile, Riccardo intonava un armonico puro. Cercò di ascoltarsi e si emozionò per la purezza di quel suono. Riprese a cantare. Si stava esercitando su un passo di lirica tedesca barocca. Cantava con la parola liebe. “E’una canzone sulla guerra?” lo interrogò sua madre che era appena rientrata. “Mamma…è una canzone sull’amore, sull’amore, mamma non lo senti la malinconia, lo straziante struggente del testo?” No. Rispose sua madre. E aggiunse che ai suoi tempi le canzoni d’amore si capivano che erano d’amore. Riccardo quasi offeso le rispose che quella che stava cantando era datata ancora più di lei e sua madre invece che lanciargli la ciabatta col tacco gli rispose “Allora forse sei tu che non sai cantarla.” E iniziò a parlare del figlio della Signora Gironella la sua amica d’infanzia. Suo figlio era diventato capitano speciale e l’Arma gli aveva fatto dono di sedicimila spillette d’oro. Dato l’esagerato numero, La Signora Gironella gliene aveva regalate cento. Riccardo non la guardò nemmeno. Era rimasto intrappolato nell’ultimo rimando sonoro dove il protagonista dice “Die liebe dauert oder dauert nicht…” non riusciva ad estendere la sua voce come avrebbe voluto. Forse, pensò, guardando sua madre che iniziava a contare le spillette, forse non la so cantare perché io non so parlare d’amore…
    Potrei continuare a cantarla come fosse una canzone di guerra cantarla distaccato eseguendo senza emozione cantarla e basta solo con la voce e chi crede di stare ad ascoltare una canzone sulla guerra lo assecondo, almeno diranno che era una canzone sulla guerra molto commovente, commovente come può esserlo una canzone su violenza e morte, la morte dell’amore l’amore che muore …sì ti amerò fino a morirne ti amerò fino a morirne, lo dice la mia canzone, ti amerò fino a morirne, amore così estremo, devo riuscire a toccare quell’estensione, ma non ce la faccio…non ce la faccio. La mia vita ora non si muove.
    “Novantotto, novantanove, e cento!”
    La verità. Mamel si era trasferito in Italia da oramai sei anni. Una famiglia gli aveva dato da lavorare. Con assunzione con riconoscimento lui con riconoscenza aveva pure trovato una bella casa. In poco tempo imparò a parlare l’italiano. Dopo quattro anni la sua famiglia iniziò a dirgli che era ora di trovare moglie. Lui doveva tornare in India per sposarsi. E ritornare in Italia con la nuova moglie. Mamel non aveva proprio voglia di sposarsi. Aveva conosciuto una ragazza, Roberta. Uscivano ogni martedì per andare a prendere il gelato in piazza. Poi una mattina arrivò la telefonata. Sua madre diceva che avevo scelto una rosa di sei ragazze speciali. “E’ ora che tu torni figlio mio. E’ ora di prendere moglie.” A malincuore lui parti. Un mese. Aveva a disposizione un mese per trovare una moglie sposarla e tornare in Italia.
    Tutto dipendeva da lui. Lui entrava nella stanza della possibile sposa. La guardava. Le chiedeva “Come ti piace il gelato?, Sei ancora vergine? Qual è il tuo animale preferito? Ti piacerebbe trasferirti in Italia?”. Terminato il colloquio lui avrebbe avuto dieci secondi di tempo per decidere di pronunciare la frase “ti va di diventare mia moglie?”
    Solo che quella volta non la pronunciò. Quando entrò nella stanza e trovò lei. Piccola e minuta. Lo guardava e le veniva da ridere. “il gelato mi piace al cioccolato mi piace il gatto e mi piace pure l’india. Però non sono capace di cucinare. Mi vuoi portare in Italia?” e lui rispose si.
  • Si sposarono e lui tornò in Italia prima solo ma con una videocassetta del matrimonio che mostrò a tutti i vicini di casa. Sei ore di matrimonio indiano. Nella videocassetta si vedeva lui seduto a terra e tante donne di una certa età colorate e luccicanti che gli versavano addosso petali di rosa e liquidi gelatinosi. Il rito preparatorio durava soltanto due ore. Altre due ore di presentazione di tutti i parenti e le ultime due di celebrazione del marito e della moglie vi dichiaro, detto in lingua indiana. La Signora Gina sospirò e pensò che se pure l’indiano si era sposato forse c’era speranza anche per suo figlio, Luigi e gli amici suoi al secondo minuto di videocassetta decisero di fare rifornimento di stupefacenti, la Signora Maria si addormentò dimenticandosi del venerdì e Riccardo rifletteva. Pensava che da loro era tutto più semplice. Toccasse a me, pensava, la fortuna di scegliere una moglie tra sei donne diverse.
    Quella mattina la Signora del terzo piano ricevette una telefonata. Era di suo figlio Gilberto. Si, il lavoro va bene, i soldi anche, amici sì, tanti e stasera esco con Carolina, magari ti mando una foto che così la conosci. Erano le parole che arrivavano dall’altro capo del telefono. Parole che la Signora del terzo piano andò subito a riferire alla Singora Gina. E fu in quel momento che Gilberto allungò la sua mano verso Frances, Frances come Francesco Garcia Rodrigez. Allungò la sua mano sulla sua spalla. Poi più in là. E poi.
    Mamel tornò in Italia. Si preparò sei mesi per l’arrivo di sua moglie, che passarono veloci . E lei arrivò. Non sorrise quando vide il paese in cui viveva Mamel non sorrise quando vide la casa e nemmeno sorrise quando vide Luigi e gli amici suoi che non riuscivano ad aprire la serratura della loro porta di ingresso. Forse perché non era la loro porta di ingresso. Mamel le aveva comprato un gelato al cioccolato e aveva chiesto in prestito il gatto di Luigi e gli amici suoi, che però si era rifiutato di entrare nella casa di Mamel perché a lui, Giò, la cipolla non piaceva. Milanel si rinchiuse in casa e per settimane non uscì. Le signore del condominio curiose e gentil donne cercarono di parlare con Milanel attraverso Mamel e Mamel cercava di parlare con sua moglie attraverso le donne del condominio. Ma non fu un gran dialogo perché lei si rifiutava di parlare sia con loro che con lui. Cioè con lui parlava. O piuttosto. Piangeva. Lamentava sempre dolori intimi, fastidi, irritazioni…non posso farlo ancora, gli sussurrava in lingua indiana…sono troppo provata da tutto questo dolore. Lui aveva già sentito parlare della scusa del mal di testa, ma non voleva dubitare dell’onestà di sua moglie. Finché un giorno dopo settimane decise di portarla all’ospedale. Lei entrò nella sala del medico ginecologo. E lui pure. Milanel non capiva e non parlava l’italiano. La visita iniziò. Mamel si stupì del fatto che quel signore il ginecologo aveva avuto la fortuna di essere in intimità con sua moglie ancora prima di lui. Ma il pensierò durò un attimo. Il ginecologo alzò la testa e osservò la ragazza. Contemporaneamente parlava con lui. “La Signora è affetta da una infezione fastidiosa che va avanti da mesi e che non è mai stata curata”. Ha tradotto? Disse il dottore? Mamel tradusse mentre il dottore continuava a guardare la ragazza che intanto si versava di lacrime. Eppure…pensava Mamel mentre apriva la porta di casa…eppure…eppure…
    Pensiero pensante
    Pensiero vicino alla comprensione
    Comprensione
    Capì all’improvviso. Capì. Per un attimo ricordò con precisione le esatte parole del dottore “La Signora è affetta da una infezione fastidiosa che va avanti da mesi e che non è mai stata curata, e che si trasmette solo per via sessuale”
    Improvvisa comprensione di parole. Tutte le parole. Improvvisa comprensione di parole. Tutte.
    Come può mia moglie avere un’infezione di quel tipo che si trasmette solo per vie sessuali se con me l’amore non l’ha mai fatto?
    E un ulteriore bagliore si accese sul suo volto… “si mi piace il gelato al cioccolato, mi piacciono i gatti, mi piace l’india, mi vuoi portare in Italia con te?” E comprese che lei, quel giorno rispose soltanto a tre delle sue quattro domande.
    Scadenza. La scadenza di dovere pagare l’affitto entro la fine del mese per Mamel, la scadenza di trovare i soldi per comprare altra roba da bere per Luigi e gli amici suoi, la scadenza di preparare quei versi amorosi per Riccardo.
    Davanti al suo pianoforte rilesse la musica. E i versi d’amore. Un testo sul sacrifico dell’amore. L’amore che va oltre la morte perché l’amato arriva fino all’ultimo istante, e in quell’istante si dà alla morte per mantenere vivo il suo amore. Ma che significa tutta questa roba. Come si fa a donare qualcosa che nemmeno si ha, la vita se te la togli te la togli e non ti rimane niente, nemmeno il ricordo ti rimane, il sacrificio poi si dimentica in fretta, ma poi che assurdità sacrificarsi per un corpo, non è generosità questa, vuol dire essere proprio stupidi.
    Dall’appartamento vicino Luigi e gli amici suoi ascoltavano Tenco e cantavano intonando certe parole “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare, perché volevo qualcuno da amare, la notte, parole d’amore. Parole d’amore.”
    Più non ho voglia di sentire parlare d’amore più sono costretto ad ascoltarlo, urlò in silenzio Riccardo. Si dimenticò di sistemare i suoi spartiti, lasciò il pianoforte aperto ed uscì. Camminò a lungo senza sapere dove, camminò per cercare di far uscire fuori tutta la sua rabbia, anche se non sapeva di preciso perché, la rabbia c’era, punto e basta. Camminò e si fermò di fronte ad una piccola casa che aveva un terrazzo ben visibile, era al primo piano. C’era una ragazza nera, ballava, con la musica nelle cuffiette e cantava nel silenzio di quella stradina desolata. Aveva un vestitino leggero, a fiori senza scarpe. Si infilava nell’aria il corpo e la musica la sua voce e il suo ballo. Ogni tanto passava qualcuno che osservandola si metteva a ridere. Ma a lui non veniva da ridere. Le piaceva. Lei continuava a ballare e lui si emozionò. Da uomo. Così che per un momento il piacere si sostituì alla rabbia.
    Suonò alla porta della Signora Maria Luigi. Gli amici suoi erano rimasti in casa a curare il gatto che intanto era scappato dalla finestra e osservava il tramonto. Miao. Sospirò. Luigi suono per tre volte, violentemente, e ancora nessuno apriva la porta. Risuonò e risuonò. Prima silenzio. Poi, un gran rumore e una specie di caduta. Luigi si spaventò, iniziò a gridare, Signora Signora va tutto bene? La Signora non rispose. Allora chiamò gli amici suoi, ma a nessuno di lare parve importante alzarsi, per un presunto rumore non identificato. Tornò in casa e chiamò il 113. “Centralino, Buongiorno. Se deve denunciare un furto prema uno, se una violenza due, se un assassinio tre, se sospetti di possibile violenza quattro, se incidente automobilistico cinque….” Luigi arrivò fino al numero sedici poi cerco di urlare ma c’era soltanto la segreteria che disse “se volte parlare con un operatore schiacciate 12984387389184731847. Arrivederci.” Intanto la Signora Maria era morta davvero.
    Soltanto cinque ore dopo arrivarono i pompieri. E i soccorsi. Nessuno poteva credere che Maria fosse morta davvero. Un pompiere mentre si asciugava le lacrime telefonò a sua moglie per dirle che l’amava, un altro ancora si nascose dietro la porta del portone, sperando che la Signora Maria potesse comparire da un attimo all’altro, il comandante dei carabinieri abbassò il suo cappello e scosse la testa. Luigi in piedi guardava. Rigido e controllato non riusciva nemmeno a prendere un respiro. Doveva piangere? Doveva ridere? Dove erano finiti tutti gli amici suoi?